C’era una volta una caffettiera malandata.
Nonostante la sua famiglia possedesse diverse caffettiere nuove, sbrilluccicose e lucenti, lei veniva scelta ogni mattina per fare il caffè del risveglio.
Il suo caffè era il più buono.
O almeno così dicevano tutti quelli che a turno si trovavano a fare il primo caffè della giornata.
Spesso era Lui a lavarla accuratamente, rigorosamente senza spugna, ma in maniera meticolosa. Riempiva il serbatoio dell’acqua fino a 2/3 il livello della valvola lasciandola parzialmente scoperta e poi faceva una montagnetta di arabica macinata al punto giusto dentro il filtro.
Lui la stringeva molto forte prima di metterla sul fuoco e la moglie, quando era il suo turno di fare il caffè, si ritrovava a forzare un caveaux e contemporaneamente a maledire di appartenere al sesso debole.
“Debole per cosa?” masticava tra i denti e grazie ad un’onda anomala di testosterone ecco che le due parti si sganciavano.
Lei aveva tutto un altro rito per dare vita alla Mokaccia.
La chiamava così perché le sembrava che quel nome coniugasse bene l’aspetto non proprio dei migliori della caffettiera e la funzione per cui era stata creata, ovvero cacciare caffè.
Mokaccia.
Lei la sciacquava distrattamente sotto il getto a pressione di un rubinetto posto ad un’altezza davvero scomoda, colpevole di far arrivare gli schizzi di posa e melma sul pavimento dove puntualmente Lei rischiava di cadere non appena spostava il piede sinistro. Aveva comprato anche delle ciabatte antiscivolo.
Non funzionavano.
Lei riempiva la caldaia fino a metà del livello della valvola e, da quando aveva letto un articolo che parlava dell’arte del caffè di Napoli, stava molto attenta a non fare nessuna montagnetta sul filtro con il caffè macinato. Anzi, lo lasciava morbido e libero di prendere la forma quando il bricco veniva avvitato sopra.
Inutile, proprio inutile dire che Lei non stringeva mai le due parti, per scelta.
Così quando l’acqua aumentava la pressione e passava attraverso il macinato, trovava sempre un via di fuga per raggiungere il piano cottura lucidato la sera prima.
La Mokaccia era per uno, due o tre tazze a seconda dei punti di vista, del sonno e degli ospiti.
A Lei piaceva tanto il caffè fatto da Lui.
A Lui quello fatto da lei.
Entrambi mentivano.
Erano entrambe delle belle scuse per spingere l’uno a fare il caffè al posto dell’altro.
La caffettiera era brutta, non più brillante, annerita dal fuoco e dal caffè che ogni giorno era costretta a sputare fuori. Qualche volta era stata dimenticata sul fuoco e tutte le parti in plastica, solo quelle in plastica, si erano liquefatte. Lei aveva deciso di sostituire solo la guarnizione, Lui subito ne aveva comprato una nuova che subito aveva abbandonato perché “la Mokaccia lo fa più buono”.
Alla Mokaccia mancava il manico e il pomello del coperchio, mai sostituiti forse per pigrizia o forse perché la caffettiera era così vecchia che non se ne trovavano facilmente i ricambi.
Questo rendeva la gestione del caffè del mattino e di tutti i caffè che seguivano molto complicata.
Per vedere se il caffè stava per uscire lui si affidava ad un cucchiaino infilato dalla parte del manico nel pertugio del bricco, faceva leva e dava un’occhiata.
Lei scommetteva tutto sulle sue mani d’amianto che non funzionavano sempre, infatti ogni tanto la mattina le capitava di ustionarsi i polpastrelli e rovesciare tutto il santo caffè su tutta la cucina.
Il caffè ha la strana proprietà di spargersi molto di più di altri liquidi, soprattutto se la superficie da infestare è chiara, magari bianca.
Per Lei queste giornate in cui la Mokaccia si rovesciava, diventavano automaticamente GiornatediMerda perché si ritrovava puntualmente a pulire mentre litigava con Lui che in maniera fin troppo prevedibile l’accusava di essere “esattamente come tua madre!”.
Lei aveva provato a comprare delle presine che si erano rivelate scomode proprio come i guanti da cucina che già possedeva.
Nessuno dei due comprava i pezzi di ricambio.
Entrambi continuavano ad usare la Mokaccia che funzionava, faceva il caffè più buono, ma qualche volta bruciava le mani di chi non metteva i guanti per toccarla.